Da Capo Pezza a Cartore, nel cuore del gruppo del Velino.

Sulla cresta del Cornacchia-Puzzillo-Torricella  poco più di un mese fa nacque l’idea di questa escursione nel cuore del Velino. Il susseguirsi delle creste a perdita d’occhio, la vastità del massiccio, allora appena sfiorato, la parete imponente del Costone che dominava la scena, lasciavano negli occhi di Marina una sorta di incompiuta, di curiosità, di voglia di approfondire il contatto con quell’angolo di Appennini.
La traversata è diventata realtà; ci si incontra all’uscita del casello A24 della Valle del Salto. Con due auto raggiungiamo Cartore, splendido borgo del Cicolano di origine medioevale-romana, ricco di spunti di cui più tardi parlerò, (dopo l’uscita autostradale  si percorre la rotatoria e si prende in direzione Avezzano, poche curve e si trova sulla sinistra una strada brecciata, un po’ sconnessa ma comunque percorribile, con indicazione per il borgo di Cartore); parcheggiamo l’auto che ci servirà per il ritorno alla base il giorno successivo e ripartiamo per Piani di Pezza, il nostro punto di partenza, che raggiungiamo in un’ora e mezza. Anche la brecciata che attraversa i Piani di Pezza ha dei tratti sconnessi ma comunque percorribili; si attraversa il piano fino al lato opposto, Capo Pezza, dove un cartello di divieto d’accesso impone di parcheggiare. Siamo al limite del bosco, a quota 1550 mt circa; il pomeriggio è caldo ma ventilato, abbiamo davanti l’ampia Valle Cerchiata, boscosa,  stretta tra la cresta di Cimata di Pezza e le più rocciose Punte Trento e Trieste; lassù in cima i vessilli del rifugio Sebastiani sotto la spalla del Costone sventolano quasi invisibili.
Ci inoltriamo nella valle, da prima e per pochi passi ampia e prendiamo il sentiero “1” per circa un chilometro; il bosco si infittisce ed il sentiero è ampio, lo seguiamo per circa quindici minuti fino ad una deviazione sulla destra; un segnavia bianco-rosso “1A” ci detta il percorso verso il rifugio Sebastiani. Il sentiero inizia ad inerpicarsi tra una vegetazione sgargiante; il sole taglia di traverso e colora il pomeriggio di colori caldi ed intensi da toccare l’anima, le coste rocciose del Colle delle Trincere perdono il loro biancore e tutto diventa come immobile, fermo in una sorta di momento perfetto. Tra radure, strettoie rocciose e ripidi tornanti del sentiero si esce dal bosco fino ad un primo balcone da dove si domina l’intera valle, dalle falde di Punta Trento fino ai Piani di Pezza, dove la strada percorsa appena un’ora prima appare ora come una sottile traccia bianca immersa in un mare verde. Sopra a dominarci si è fatta imponente e verticale la parete rocciosa della Cimata di Pezza che preannuncia l’ormai vicina sella del rifugio. Saliamo ancora per un sentiero ormai meno ripido tra un mare di fiori e di colori fino a raggiungere la cresta, poco sotto il rifugio ancora invisibile se non fosse per i vessilli stesi al vento.
Ai 2102 mt del Colletto di Pezza dove domina il rifugio Sebastiani arriviamo in perfetto orario nonostante il passo lento che abbiamo tenuto; due ore per percorrere i quasi 600 metri di dislivello che lo separano da Capo Pezza.
Eravamo a cavallo tra le piane del Puzzillo a nord e quella di Piani di Pezza a sud, lontano quella di Campo Felice, sembravano degli oceani lontani e placidi,  il sole tramontava lentamente dietro le pareti del Costone ed un vento fresco e teso che faceva dimenticare le afe della pianura donava agli orizzonti una vastità inusuale. Il Terminillo, il Vettore, le cime appuntite della Laga e tutto il massiccio del Gran Sasso, fino alla Maiella e alla lunga cresta del Sirente; era incredibile come tutte le montagne conosciute e lontane sembrassero così vicine.
Il tempo di una cena, che tutto era meno che frugale, tra la goliardia tipica dei rifugi ed i racconti che da un tavolo all’altro sapevano solo di montagna e ci siamo trovati di nuovo all’aperto a vivere il lento spegnersi della giornata quando i colori del mondo e del cielo si vanno confondendo in una continuità senza confini. Una temperatura inaspettatamente bassa insieme alla voglia di essere in forma per la lunga giornata a cui saremmo andati incontro ci ha spinto dentro i nostri sacchi; troppo caldi per usarli a pieno ma impossibile dormire senza, ci è voluto un po’ per trovare il giusto equilibrio ma alla fine il sonno ci ha regalato una lunga notte serena; interrotta solo verso le tre quando non ho resistito e sono voluto uscire. Una stellata da fermare il respiro; milioni di stelle , miliardi di puntini così vicini da non riuscire a credere agli occhi. Ricordi antichi quando i vecchi ti meravigliavano raccontandoti che quella indistinta scia biancastra che vedevi attraversare il cielo e su cui brillavano quelle migliaia di puntini luminosi non era altro che la nostra galassia. Il vento che ancora soffiava e che ora era decisamente freddino mi ha spinto di nuovo dentro il sacco a pelo, ma solo fin quando i primi bagliori che filtravano dalla finestra mi parlavano di un’alba imminente che non potevo perdere. Inutile parlare della bellezza di quei momenti, varrebbero solo questi l’ascesa al rifugio.
A giorno fatto, sono le 7, siamo fuori per la colazione, mezz’ora e ci incamminiamo di nuovo per il sentiero abbandonato il giorno precedente, sempre “1A”, per ripidi tornanti tra cresta e “breccioni” e come riferimento la croce ben visibile sulla vetta del Costone; solo 35 minuti, un attacco feroce per le nostre gambe appena uscite dal torpore della notte e siamo sui 2271 mt del Costone Sud, il punto più alto della nostra traversata.
Le luci del giorno ancora basse e la limpidezza degli orizzonti regalano una vista come poche su tutti gli Appennini; è davvero emozionante per Marina essere lì e per me lo è anche esserci ritornato, soprattutto quando seguendo la cresta ci affacciamo dopo pochi minuti sulle verticali pareti del lato sud della montagna, quelle pareti che avevano fatto innamorare Marina quando le aveva ammirate per la prima volta dal Puzzillo. Roccia verticale da far girare la testa, quasi 200 mt fino alla fossa del Puzzillo laggiù in basso: da stordire.
Intanto gli orizzonti verso ovest si erano aperti completamente: dal Velino fino al Murolungo e alle nostre mete, l’Uccettù ed il Morrone  e tutta la valle dominata dal lago della Duchessa. Seguiamo la cresta ed il sentiero, sempre “1A” , ma fino alla sella delle Solagne; da qui lo abbandoniamo e senza sentiero, ma data la vicinanza dell’Uccettù, per linee ovvie lo raggiungiamo senza difficoltà. Due ore e quarantacinque minuti dal rifugio, dopo il primo strappo per raggiungere il Costone quasi una intera lenta discesa fino ai 2006 mt della nostra terza vetta della giornata.
Dopo una brevissimo “pit-stop” prendiamo a scendere per il Vado dell’Asina 100 mt più sotto, una sorta di sella che divide l’Uccettù dalla spettacolare vetta del Morrone.
Il sentiero, che sulla carta non è tracciato ma che sulla montagna è chiaro ed evidente come un’autostrada, da prima percorre a mezza costa la montagna, tra un mare di fiori dai colori più svariati, qualcuno non lo avevo mai visto prima d’ora, poi si inerpica agevolmente fino alla cresta proprio sopra al lago. La vista è grandiosa, dominata dalla splendida parete del Murolungo, di recente ferita da un crollo di una consistente colonna di roccia in prossimità della grotta dell’Oro, e dalla piramide del Velino. In cresta riprende a tirare il vento che vista l’ora inoltrata della mattinata ed il sole ormai a picco, diventa regalo prezioso; il sentiero si distende in una aerea ma comoda e larga cresta fino alla meno famosa Punta Z.I.S. da dove le verticalità del circolo glaciale del Morrone diventa spettacolo puro.
Aggiriamo Punta Z.I.S., siamo costretti a perdere quota, e traversando il fianco sud della montagna, l’unico percorribile vista la verticalità del lato nord, riprendiamo la cresta mezzo chilometro più avanti. Ormai non rimangono che poche decine di metri a dividerci dalla vetta, i più divertenti forse della giornata, tra balzi e corone di rocce dove gettiamo i bastoncini oltre l’ostacolo e ci divertiamo in facili passaggi di arrampicata. E finalmente la vetta, la più inaspettata, strana vetta degli Appennini, dove monolitici massi disposti quasi in ordine la fanno unica. Siamo sui 2141 mt di altezza del Morrone, sono le 12 e 40 e sono passate cinque ore dalla partenza dal Sebastiani.
Per fortuna uno di questi massi è abbastanza grande da concederci qualche centimetro di ombra e risparmiarci dalla ferocia del sole. Tanto basta, insieme ad una ricca pausa mangereccia per rifarci prendere dalla stanchezza. Riprendiamo a malincuore la discesa, non tanto per quanto rimane del percorso che è ormai ben oltre la sua metà, quanto per ciò che ci tocca in auto per ritornare ai Piani di Pezza e da li a casa.
Ripercorsa la cresta a ritroso, per guadagnare tempo e risparmiare metri da percorrere  decidiamo di inventarci in un percorso alternativo. Sotto Punta Zis prendiamo a scendere con lunghi traversi il fianco della montagna verso il lago ormai a vista ma ben presto ci rendiamo conto che forse non ci stiamo inventando proprio nulla. Sulla carta non è riportato ma il fianco della montagna è solcato da chiari segni di calpestio, a tratti da veri sentieri che ora sono evidenti e più in là spariscono. Siamo in valle in meno che non si dica e finalmente i nostri scarponi si appoggiano su manti erbosi così morbidi che sembra di camminare scalzi. Prima che si stringa nella forra della valle di Fua ci scorrono davanti le Caparnie, rifugi pastorizi finalmente ristrutturati e dei magnifici esemplari  di faggi secolari della cui ombra per breve tratti approfittiamo per cercare di smaltire la sbornia da sole.
L’ombra sarà la nostra compagna fino alla fine solo pochi metri più avanti, quando ci infiliamo prima nel Vallone del Cieco e poi nella forra spettacolare della Val di Fua, così stretta in alcuni punti da non vedere il cielo. Così stretta ma anche così ripida tanto che in un paio di punti particolarmente esposti è stata attrezzata con solide catene.
Peccato arrivare in questa forra molto stanchi e ormai con l’unico desiderio che non sia quello di dire fine alla giornata. La val di Fua è un vero gioiello naturalistico, una forra boscosa ripidissima, un taglio tra le montagne che ne fa un’ ambiente unico e suggestivo.
La Val di Fua è utilizzata anche come punto di accesso alle montagne della Duchessa, ma attenzione, per dislivello, pendenza e alcuni tratti leggermente esposti è consigliabile solo a chi ha già esperienza di montagna.
Fuori dalla forra Cartore è a due passi, cinque minuti di defaticante sentiero in discesa.
Sono le 16 e 20, poco più di otto ore dal Sebastiani, 18 Km circa percorsi con dislivelli totali di 1200 mt circa in salita di 1600 mt circa in discesa.
E’ la fonte che ti accoglie a Cartore il primo segno concreto di civiltà ed è davvero inimmaginabile coglierne l’importanza finché, come noi, non ci arrivi sfatto, stanco e desideroso di qualcosa di fresco. Credo di essermi ubriacato della sua acqua tanto ne ho bevuta.
Poco più in là il borgo di Cartore, del quale davvero vale la pena spendere due parole.
Il resto della giornata riguarda solo il recupero della seconda auto ai Piani di Pezza ed un interminabile lento rientro verso casa.  Una traversata entusiasmante!!!

“L' antico borgo di Cartore è posizionato alle pendici delle Montagne della Duchessa, tra Valle di Teve e Val di Fua a quota 944 s.l.m., è un piccolo insediamento aperto ormai abbandonato con strutture murarie di età post-rinascimentale utilizzanti frammenti edilizi romani.
    Per quanto riguarda il toponimo medievale di Cartore, esso deriva probabilmente deriva da un originale termine "Castoris", riferibile ad un probabile santuario dedicato ai Figli di Giove, i Dioscuri o Castori, santuario ricercabile nell' area dello stesso abitato di Cartore o riconoscibile sul sito del santuario italico su terrazzo di Bocca di Teve.          
    Nel successivo periodo medioevale vediamo sopravvivere in qualche modo le strutture rustiche tardo-antiche, ancora attestate nell' VIII secolo, su cui nel XII secolo si sovrappongono la pieve di " Sancti Laurenti in Cartore " e il "Monasterium Sancti Leonardi in Selva" e successivamente, la chiesa rurale di S: Nicola di Cartore e l' eremitorio di S. Costanzo del Vallone di Teve. I due complessi monastici su grotta, appartenuti ai monaci di Farfa, costituiscono degli esempi mirabili di questo tipo di architettura del Cicolano. Si potrebbe sospettare che le strutture murarie in opera incerta, presenti sopra il santuario italico della Bocca di Teve, potrebbero essere riferibili ad una struttura culturale sovrapposta al monumento antico. Probabilmente legate ad una prima fase di culto dedicato a S. Lorenzo in Cartore o S. Costanzo.   
    La fine del medioevo segna la decadenza delle pievi di Cartore con la successiva nascita del piccolo insediamento post-rinascimentale di Cartore attorno alla chiesa  di S. Lorenzo, insediamento abbandonato nel dopoguerra a vantaggio dei vicini paesi di Corvaro e S. Anatolia.
 (da http://www.riservadelladuchessa.it)

E, tratto da Il Messaggero  Rieti - Borgorose - Giovedì 25 Febbraio 2003
un omaggio ad un personaggio storico dei monti della Duchessa:
“È morta l'ultima abitante di Cartore di Borgorose. Annunziata Rubeis, 80 anni, ha vissuto la sua vita insieme al marito Eusebio Di Carlo (90 anni, che ora ha lasciato Cartore per andare a vivere con i figli) nella piccola frazione situata alla pendici del monte della Duchessa e che contava, fino all'altro ieri, solo due abitanti. Un'esistenza vissuta in mezzo ai boschi, senza telefono ed energia elettrica, isolata dal mondo civile. Eppure Annunziata e suo marito sono stati testimoni silenziosi dei maggiori avvenimenti della storia del Cicolano.I coniugi Di Carlo furono tra i primi soccorritori quando un aereo civile, verso la fine degli anni Cinquanta, precipitò sui monti della Duchessa. Una tragedia che rimarrà scritta negli annali della storia della Valle del Salto. Come furono tra i primi a raggiungere il lago della Duchessa quando le Brigate Rosse fecero credere che il corpo dello statista Aldo Moro si trovasse sepolto in quelle acque ghiacciate.E ancora. Credendo che si trattasse di un turista stravagante venuto dalla città per vivere a contatto con la natura i Di Carlo per oltre tre mesi hanno vissuto con un vicino scomodo: il bandito Renè Vallanzasca aveva trovato rifugio in un casale diroccato a Cartore. La convivenza con il noto fuorilegge era stata riservata e cordiale ma mai i Di Carlo avrebbero pensato che quell'uomo gentile fosse in realtà un pericoloso latitante che aveva trovato rifugio proprio vicino alla loro abitazione.Altri personaggi scomodi si sono aggirati tra le case ormai diroccate di Cartore, antico borgo addirittura di origine romana. Le Brigate Rosse usavano gli anfratti più nascosti e difficili da raggiungere per custodire le loro armi. Qualche anno fa un brigatista pentito fece ritrovare, vicino alla "grotta dei briganti", un deposito di armi che erano state seppellite dentro un frigorifero portatile che Eusebio, profondo conoscitore del montagna, aiutò a ritrovare fornendo un contributo importante alla società civile pur da quel paesino così isolato, oggi rimasto desolatamente disabitato”.
Lo scorso anno anche Eusebio Di Carlo, che nei periodi buoni non mancava di fare ritorno a Cartore, se ne è andato lasciando vuoto i borgo ora frequentato solo da turisti “alternativi” che frequentano il complesso di vecchi casali interamente ristrutturati e gestiti dalla Comunità montana Salto-Cicolano (per info www.saltocicolano.it – 0746.558191) e dai campi scout.

Dati tecnici

 

Bibliografia

Parco Regionale Sirente-Velino  - Società Editrice Ricerce

Cartografia

 

Carta 1:25000 – Edizioni il Lupo&Co.

 

 

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